Dato che siamo ancora tutti ‘confinati’ in casa e forse lo saremo ancora per un po’,
come già anticipato nello scorso articolo, facciamoci coraggio scorrendo la nostra storia e scoprendo come ben più gravi situazioni abbiano colpito Facen, sempre grazie a dati tratti e fedelmente riportati dal “ Libro cronistorico della parrocchia di Pedavena (1757-1924)” a cura di Giuseppe Corso e Aldo Barbon.
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Suscitato dalla Giustizia di Dio che volea col terrore richiamar i popoli a penitenza, dalle rive del Gange veniva a noi un Missionario apostolico preceduto dal Freddo orrore, accompagnato da celere morte, e seguito dallo spavento e dalla desolazione (salutato trepidando) era l’Illustrissimo Colèra (39).
Dopo di aver invase le città meridionali dell’Italia fino dall’inverno fattosi più formidabile celere e veloce menando straggi e morte avea passato Tevere, l’Arno ed il Po, e seguendo le rive del Brenta e della Piave entrava per due porte il suolo Feltrino e nel ultimo giorno di Giugno prendea possesso per un mese e mezzo di questa Parrocchia cominciando a Teven nella giovin donna Stella Semella.
Recisa quella vittima si riposa otto giorni per ripigliar forza da suoi viaggi e compiere la sua missione.
Sorse infatti e lavorò instancabilmente per Tornaolo e Sega e Pedevena; sal’i a Norcen e si contentò di due trilustri vittime; altre due ne recise per l’Avena; non guardò Festisei ma si piantò d’un salto a Facen dove da un solo cortile in men di otto giorni trasse dieci persone; s’avviò a Fiere e tra le quattro vittime colse il più vecchio della Parrocchia di anni 92, e senza toccare il Col e Travagola diede un altro colpo a Teven e ritornando a Pedevena, cogliendo una sola persona miserabile per S. Osvaldo, dopo aver fatto il maggior massacro nel 25 Luglio in cui otto vite si smorzarono, verso la metà di Agosto del tutto cessava.
Le mute ma faconde Prediche fatte da questo Missionario dopo diciannove anni, nel qual incontro non aprì bocca in Pedevena, ottennero un felice risultato, rendendo questo popolo assai umile e docile alla voce del suo Pastore che assistito dal suo Buon Forlin Cooperatore, ed il ultimo luogo ben ajutato dall’altro D.Vicellio, nello primo sviluppo anche esso indisposto, potè dare a tutti la spirituale assistenza.
La moria non fu strepitosa restringendosi nell’ambito di 50, ma fu possente a ridestar nel popolo la efficace divozione specialmente verso Maria Santissima.
Quindi copiosi furono i regali in oro, argento, vesti d’ogni sorta offerti per tutte le Chiese.
(39) Pare impossibile che, neanche un secolo e mezzo fa, le grandi epidemie dell’antichità avessero ancora a decimare la nostra popolazione. Già nel 1836 lo stesso “cholera morbus” era apparso nei villaggi del feltrino, tanto che avevano trasformato l’ex convento di S.Chiara in lazzaretto, al fine di segregare i contagiosi dai sani. Erano anni in cui le epidemie viaggiavano al seguito di terremoti e di carestie e anche di eserciti. Basta ricordarsi del capitolo XXXI de “I promessi sposi” del Manzoni per trovare il riferimento dell’arrivo della peste con l’entrata nel milanese delle bande armate alemanne.
Pure a Feltre, nel 1855, il flagello cominciò fra i militari, anche se si trattava solo di ragazzi di nazionalità tedesca, allievi convittori di quel collegio militare che, due anni prima, il governo imperiale aveva allogato nella vecchia scuola dei Gesuiti, siti in Via S.Avvocato, ora Garibaldi.
Forse per le insufficienti condizioni igieniche della collettività, il morbo ebbe a mietere prima le giovani vittime del collegio e poi a diffondersi a macchia d’olio.
A Pedavena, a sfogliare il registro dei morti di quell’anno, si legge di tanti decessi per “morte fulminante” tant’era rapido il decorso letale del contagio. L’annotazione dei morti colerosi iniziò il 10 luglio e continuò a ritmo serrato fino al primo settembre, quasi due mesi nei quali il nemico invisibile e subdolo ebbe ad entrare dentro i nostri cortili a scegliere nelle case le sue vittime, ora qua ora là, capricciosamente.
Drastiche misure sanitarie vietavano l’accompagnamento al cimitero con i funerali, per cui i morti di colera venivano portati via di notte ed inumati senza alcuna manifestazione né religiosa né di lutto.
Naturalmente ogni regola pur severa comportava le sue eccezioni e così al notabile Vincenzo Cricco, morto coleroso, le autorità sanitarie concessero il funerale diurno, il 26 luglio 1855. Nelle sue esequie funebri fu accompagnato anche dai consoci della Confraternita del SS. Sacramento, della quale era stato per tanti anni il priore.
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